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Galileo Chini pittore europeo
di Fabio Benzi



Introduzione

Un anno dopo la grande retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che ha definitivamente messo a punto una rinnovata quanto corretta lettura dell’opera dell’artista, collocandola definitivamente in un contesto europeo di largo respiro che gli compete strettamente, presentiamo questa più piccola esposizione privata, composta di una ristretta ma significativa selezione di opere, centrate (anche se non esclusivamente) sulla significativa esperienza siamese (1911-13).

Galileo Chini in una foto di Numes Vais, 1904 c.a.


Da diversi anni, studiando sempre più a fondo la figura di questo grande artista, ci si è resi conto di quanto la sua dimensione espressiva fosse decisamente singolare rispetto a molti dei suoi colleghi italiani contemporanei, nutrita di un cosmopolitismo robusto, non superficiale; e parimenti dotato di una foga creativa che ne fa una delle incarnazioni europee più complete dell’artista universale individuato dall’ideologia modernista dell’Art Nouveau (che è poi alla base delle teorizzazioni delle Avanguardie storiche) e al tempo stesso un pittore intimamente quanto autonomamente legato, fin dal secondo decennio del secolo, a una tendenza post-impressionista incarnata, nel Novecento, da artisti come Bonnard e Vuillard.
La sua posizione culturale, naturalmente internazionale nella sostanza e nella vocazione, era stata temporaneamente messa in ombra, nella seconda parte della vita, da un’aristocratica solitudine, da un’appartata distillazione delle sue energie pittoriche, che ne ha fatto in un passato ancora prossimo fraintendere o dimenticare la profonda consonanza con esperienze europee di enorme spicco, ma che in Italia, per ragioni che non staremo qui ad indagare (certo soprattutto per un gusto classicheggiante dominante nel periodo tra le due guerre, cui Chini era nettamente estraneo), non hanno avuto particolare diffusione e dunque riscontro.
Se in un passato ancora piuttosto recente – fino agli anni Settanta del Novecento – le etichette di pittore liberty o ancora più genericamente post-macchiaiolo sembravano sufficienti a definire l’opera di Chini (per quanto fossero profondamente scorrette e fuorvianti), ciò avveniva poiché erano forse le uniche griglie di analisi critica che in Italia potevano allora essere comprese; oggi invece la sua figura si può più ampiamente valutare se inserita nel contesto tipicamente novecentesco di un’ “impressionismo psicologico” che in Europa e in America fece proseliti tra artisti grandissimi, come Bonnard, Vuillard, lo stesso Matisse, Corinth, Prendergast, Grant, Moll, ecc., mentre in Italia fu appannaggio di personalità originali ed eccentriche, disparate e spesso, come fu per Chini, fraintese o sottovalutate: come De Pisis, Semeghini, Tosi, Cavaglieri, ecc.

 

Gli esordi simbolisti

La storia artistica di Chini inizia nell’ultimo decennio del XIX secolo: nasce, ancora giovanissimo, come decoratore nella Firenze eclettica di fine secolo, allievo di Augusto Burchi, ma già nel 1896 si emancipa da quel gusto tradizionale per proiettarsi vivacemente nel dibattito modernista europeo, divenendo con la sua poliedrica e simultanea attività di pittore, affreschista, grafico, scenografo, ceramista, il personaggio leader del nuovo gusto in Italia, quello, come s’è detto, che interpreta più compiutamente le istanze universaliste, l’abbattimento delle barriere tra arti maggiori e minori tipiche dell’Art Nouveau e poi delle avanguardie. In particolare, le sue creazioni ceramiche sono certamente uno dei massimi apici di quel gusto in Europa. I suoi ripetuti successi alle Biennali di Venezia, le sue partecipazioni e i premi ottenuti ad innumerevoli esposizioni internazionali a partire dal 1898, lo consacrano come uno dei più versatili artisti italiani di quell’epoca. Personaggio piuttosto atipico, come già s’è detto, rispetto all’ambiente artistico italiano, egli aveva trasgredito le imperanti regole accademiche dedicandosi ad espressioni fino a quel momento considerate “minori” seguendo una spinta istintiva verso principi di rinnovamento e di modernità espressiva, nutrito dalle idee moderniste europee (in particolar modo attento alle teorie inglesi degli “arts and crafts” e alle innovazioni linguistiche delle secessioni mitteleuropee).

Galileo Chini davanti al quadro La sfinge, 1903

Il concetto che non esistessero distinzioni espressive nelle varie pratiche artistiche, aveva avuto nell’ambiente tradizionalista italiano pochi precedenti, tutti inseriti nella preziosa nicchia di una Roma Bizantina e legata a Gabriele d’Annunzio (Cellini, Ximenes, De Carolis), e sottoposti a un concetto élitario della realizzazione che li rendeva raffinati contorni di un ristretto circolo decadente. Chini promuove invece un concetto dell’opera d’arte di produzione industriale, di ampia diffusione, con una fortissima incidenza nei costumi e nel gusto quotidiano: le sue ceramiche sono prodotte in grande quantità e introducono nelle case borghesi un gusto art nouveau inedito per l’Italia fino a quel momento, così come le sue decorazioni parietali escono dalle chiuse ambientazioni di case di intellettuali adepti di un gusto modernizzante, per diffondersi in ambienti pubblici (sedi di banche, alberghi, teatri, esposizioni temporanee), caratterizzando le sedi di incontri sociali e quotidiani, invadendo i luoghi della vita e determinandone il gusto con una decisione fino ad allora sconosciuta. Queste teorie verranno esposte in un Manifesto che Chini scrisse nel 1917 (Rinnovando rinnoviamoci), nel quale si proponeva l’abolizione delle Accademie di Belle Arti che con la loro struttura sancivano la distinzioni tra arti maggiori (pittura, scultura e architettura) e minori, e l’istituzione di “Scuole artistiche industriali atte a rinnovare tutte le forme delle arti applicate”.
In pittura egli aderisce fin dagli esordi al divisionismo, coniugandolo con uno spirito nettamente simbolista, in una direzione espressiva e stilistica tipicamente italiana, impostata dai più anziani Segantini, Pellizza da Volpedo, Previati e Nomellini, gli artisti allora più ricercatamente moderni; Chini dipinge scene con soggetti simbolici e allusivi (Le Frodi, Icaro, Medusa, La Sfinge, Il Trionfo), paesaggi di inquietante emotività interiore, ritratti in cui la ricerca psicologica viene accentuata da ambientazioni notturne e corrusche. Pur inserendosi nel clima ancora fervido del decadentismo internazionale (imperniato sulle figure di Rodin, Besnard, Klimt, Von Stuck, Toorop, Hodler, ecc.), Chini propone una versione originale di quel linguaggio filtrandolo attraverso un divisionismo libero e filamentoso, che rappresenta a quell’epoca il mezzo espressivo “moderno” per eccellenza: antinaturalistico e riflessivo, è un filtro che impedisce naturalmente qualsiasi accento veristico o accademico, asserendo il valore concettuale e non puramente rappresentativo dell’opera d’arte. Una vocazione alla modernità, la sua, così estroversa da trovare una sponda persino nel giovane Boccioni – anch’egli divisionista, che nella formazione del suo futurismo troverà modo di meditare, oltre che su Previati, anche su alcuni brani della cupola dipinta da Chini alla Biennale di Venezia nel 1909.

 

Galileo Chini a Bangkok

Quando Galileo Chini, nel giugno del 1911, si imbarcò a Genova sul piroscafo diretto a Bangkok, era già un pittore di enorme successo, noto internazionalmente e appena trentasettenne.

Galileo Chini al suo arrivo a Bangkok
in una sala del palazzo reale, 1911

Il soggiorno siamese si colloca dunque al culmine del successo dell’attività chiniana, in un momento di grande produzione soprattutto di decorazioni parietali: del 1909 è la decorazione della cupola della Biennale di Venezia, del 1910 quella del padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, del 1911 il grande fregio per l’Esposizione Internazionale di Roma (circa 3 metri d’altezza e 80 di lunghezza). Benché Chini ricordi nelle sue memorie che il re Rama V, vedendo gli affreschi della cupola alla Biennale di Venezia del 1909, decise con un piglio da sovrano assoluto di affidare al pittore gli affreschi dell’Ananta Samakhom Throne Hall (“Ho trovato e voglio questo pittore Italiano per decorare il Phra-Ti-Nam”), in effetti l’episodio va riferito alla Biennale del 1907, dove Chini allestì e decorò la “Sala del Sogno”, e dove il sovrano effettivamente si recò durante il suo secondo e ultimo viaggio in Europa, accompagnato da dignitari di corte e dall’ingegner Carlo Allegri (Direttore Generale del Dipartimento dei Lavori Pubblici del Siam) e dall’architetto Annibale Rigotti, autore del progetto della Sala del Trono. I lavori del Palazzo del Trono non erano dunque ancora iniziati (il palazzo fu costruito tra il 1909 e il 1911), ma solo pianificati, quando Chini venne contattato e successivamente definitivamente ingaggiato, nel 1910, per questo monumentale lavoro per il quale gli venne corrisposta l’ingente somma di 100.000 lire. La suggestione orientale ebbe dunque tempo di formarsi e sedimentare nell’animo di Galileo Chini, che già dall’inizio del secolo era attratto dagli elementi decorativi orientali che riproponeva e reinterpretava nelle ceramiche: queste suggestioni si amplificano soprattutto nella produzione ceramica dopo il 1907, e un più forte e marcato linearismo, che racchiude i contorni delle figure prima piuttosto sfumati, emerge anche nelle decorazioni parietali pur senza citazioni dirette di motivi orientali.
La lunga incubazione di un viaggio in terre lontane e favolose dispose con evidenza Chini a un’evoluzione del suo linguaggio pittorico. Il fascino dell’esotismo, che da un secolo continuava a far sognare gli artisti europei e che per molti rimaneva un sogno irrealizzato, aveva avuto alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX un ultimo momento di enorme attrazione: da Gauguin ai pittori di Pont-Aven, da Debussy a Puccini, da Klimt a Nolde, le suggestioni e, più raramente, i soggiorni nei paesi esotici avevano creato nostalgiche e appassionate adesioni artistiche, avevano suggestionato e innovato il linguaggio occidentale dell’arte, aprendolo a lussureggianti aneliti cromatici, a forme di linearismo inedito, ad atmosfere di rarefatta interiorità.
Nei ricordi di Chini del viaggio e del soggiorno in Siam traspare questo senso di meraviglia, che in lui si accorda a uno spiritualismo di matrice teosofica che nell’osservazione del buddismo trova nutrimento e suggestione. Il viaggio in nave procede da Genova facendo tappa a Porto Said, Suez, Aden, Colombo, Penang e infine Singapore, dove cambia battello per arrivare a Bangkok. La meraviglia dell’oriente comincia a manifestarsi nella tappa di Colombo, che visita insieme alla nipote del pittore preraffaellita Watts: “Colombo, città veramente da ‘Mille e una notte’. Quando scendemmo a terra era già buio: il plenilunio era abbagliante, i muri bianchi delle abitazioni, caratteristici per la loro struttura, diventando d’argento, la vegetazione superba rifletteva una luce di smeraldo, l’aspetto e il portamento delle persone erano per noi fonte di strana e misteriosa meraviglia. Il mercato, con frutta e cose fino allora a me sconosciute, mi fece una strana impressione. Mi si riaffacciarono alla mente alcune cose che avevo letto su Budda ... ed allora alcuni aspetti non mi parvero più nuovi”. Del Tempio Celeste di Colombo esiste un piccolo dipinto realizzato sul posto da Chini, che per la poetica scioltezza introduce già a un nuovo e originale modo di percepire e rappresentare la realtà.

Galileo Chini a Bangkok,
in costume siamese, 1912

All’arrivo a Bangkok lo aspettano emozioni e sorprese ancora più grandi, come l’incoronazione di re Rama VI, i cui festeggiamenti fastosi furono la base per gli affreschi della Sala del Trono: “A chi vi giunge per la prima volta, il Siam suscita una impressione strana [...] Certo è che in quei giorni (durante le feste) si offrirono ai nostri occhi spettacoli veramente allucinanti [...] Quei templi dalle mura bianche, dalle porte in oro, dalle finestre in mosaico vetrario e di madreperla, dai tetti in ceramica policroma e dorata, sostenuti mediante ossatura di legni preziosi o laccati, con Budda e con Santi di bronzo dai colori di patina fosforescente, con statue di stranissimi simboli, per noi incomprensibili, sono cose che oltrepassano ogni descrizione. Gli elefanti sacri coi loro mascheramenti religiosi, i loro palanchini, le loro torrette, gli uomini che nei costumi sfarzosi li guidano o sopra di essi rappresentano figure leggendarie o religiose o militari o civili, non sono affatto cancellati dal mio ricordo [...] Le feste proseguirono per parecchi giorni, e così anche noi europei avemmo modo di addentrarci un po’ in quello che è il vero spirito dell’Oriente. Per me fu cosa utilissima, che dette modo al mio spirito di mettermi nella condizione più opportuna per eseguire il mio lavoro, e le rappresentazioni che dovevo illustrare furono da me eseguite in modo tale da destare l’approvazione e l’ammirazione del Re e degli esperti di Corte”.

Nei primi bozzetti e dipinti eseguiti in Siam emerge una grande libertà formale, un’uscita dal clima e dai soggetti simbolisti tipici del primo decennio del secolo, e una naturale propensione a cogliere gli aspetti lirici, intensamente emotivi della realtà. Il divisionismo, già piuttosto liberamente interpretato nel decennio precedente, si scioglie in una pennellata autonoma, in colori “di patina fosforescente” accostati con una libertà compositiva che fa echeggiare risonanze interiori, effetti di memorie evocate e risvegliate. Inizia per Chini un nuovo periodo, post-simbolista, che mostra (come già si è detto) una singolare analogia con quello di Bonnard, Vuillard e gli altri pittori già del gruppo dei “Nabis”, che nel nuovo secolo abbandonano anch’essi le matrici simboliste per entrare in uno scavo della realtà scoperta nelle sue risonanze “interiori”. I quadri eseguiti nel 1911 e all’inizio del 1912 sono paesaggi intimi e luminosi, animati da accensioni e bagliori misteriosi (Il mio cortile a Bangkok). Il Tifone, osservato durante il viaggio in nave, è un dipinto che ancora, nell’incombente massa delle nuvole squarciata dal sole, mostra un deposito simbolico del passato, ma ormai l’emozione derivante dal fenomeno naturale ha preso il sopravvento sul simbolismo esplicito dei dipinti precedenti. Gli interni dei templi in penombra, animati di fiammelle fatue, in cui la meditazione dei fedeli è come un’esalazione spirituale dominata da Budda immensi dai bagliori d’oro, le vedute di canali al tramonto, di notturni stellati, di templi immersi nella foresta tropicale, sono dipinti tra i più lirici e poetici della pittura internazionale di quegli anni. Le figure orientali ed enigmatiche di danzatrici, di malinconici mandarini cinesi raffigurati tra i vapori degli incensi, con un tessuto pittorico sfibrato dall’emozione e dalla nostalgia, sono immagini di un mondo lontano eppure fisicamente presente, da cui emerge un pathos contenutissimo eppure lancinante.

Appena arrivato a Bangkok l’artista inizia a studiare le rappresentazioni della Sala del Trono: naturalmente le cerimonie per l’incoronazione del nuovo re Rama VI gli sono di enorme suggestione per la definizione degli apparati iconografici, delle situazioni, per lo studio dei costumi di gala. Risalgono infatti a questo periodo iniziale una serie di studi a grandezza naturale, a tempera su tela o su cartone (più raramente a olio), di personaggi di corte nei loro sfarzosi costumi: studi nei quali traspare la luminosità di un colore inedito finora, dalle opalescenze nate dalla luce e dalla vivezza delle tinte tropicali.
Chini mette immediatamente “mano alla decorazione della cupola e del suo piedritto e così giunsi a prepararmi a quanto m’occorreva per il rimanente dell’opera mia, specie per la rappresentazione dell’Incoronazione del nuovo Re a cui io potei assistere, che mi fu una facilitazione utilissima dato anche certe difficoltà che il rito esigeva e oltre a questo ebbi grande fortuna di poter comprendere, nei fastosi e nei sontuosi orientalismi, favolosi per noi Europei, a cui non poteva arrivare il mio discernimento a noi tanto lontano”.
Spesso trascurato dalla critica, si colloca a questo punto un significativo viaggio che Chini compie nel 1912, tornando per qualche tempo in Italia a causa di una malattia che aveva colpito sia la moglie che il cugino Chino, responsabile durante l’assenza di Galileo della conduzione della Manifattura ceramica. Non sappiamo quanto durò questo soggiorno, ma nel tempo che Chini trascorse in Europa, egli mise a punto un’ulteriore maturazione artistica: certamente si aggiornò sulle novità europee realizzatesi durante la sua assenza, certamente imbastì in quell’occasione la sua partecipazione alla Biennale del 1914 con una sala di opere siamesi, e probabilmente, come gli era consueto, si recò anche all’estero: si spiegherebbe così una singolare vicinanza strutturale tra un’opera di Klimt presentata all’Esposizione d’Arte di Dresda nel 1912, il Viale nello Schloss Kammer Park, del 1911-12, e un dipinto eseguito probabilmente subito dopo il ritorno in Siam, Canale a Bangkok, anch’esso del 1912, anche se egli aveva già impostato il tema in una scenografia per Sem Benelli del 1910.

Sala Mestrovic, Biennale di Venezia del 1914

Al ritorno in Siam emergono infatti nella pittura di Chini distinti accenti secessionisti, seppure integrati in una visione magica, lussureggiante dell’oriente: il carattere di questi dipinti è nostalgico, liricamente - quasi puccinianamente - declamato, liberissimo di esecuzione. Il quadro cardine di questo secondo periodo siamese è La festa dell’ultimo giorno dell’anno cinese a Bangkok (1912): dipinto enorme, è un rutilante sogno orientale, in cui la moltiplicazione dei punti luce, la compenetrazione dei riflessi cromatici, possono ricordare analoghe soluzioni boccioniane, dalla Rissa in Galleria a La città sale, a Idolo Moderno (alcuni di questi e altri quadri furono forse visti da Chini a Milano nel 1910, o conosciuti attraverso riproduzioni durante il soggiorno a Firenze del 1912). Certo, i profili semplificati e corrosi dalle luci colorate dei personaggi, la presenza inquietante e pirotecnica del drago cinese, realizzati con paste di colori contrastanti, sono di una resa espressiva originale e inconsueta, quasi una visione filtrata da un’esperienza oppiacea, e costituiscono uno degli episodi più alti e singolari della pittura italiana di quegli anni.

In campo pittorico Chini realizza dunque in oriente una visione ormai personale e matura di un post-impressionismo libero e psicologicamente caricato, che abbandona definitivamente le residue cadenze simboliste per proiettare invece l’interesse sul contenuto psicologico dell’immagine, sulla permanenza dell’emozione nella vibrazione del colore e nella scelta del soggetto, in cui, modernamente (e potremmo dire proustianamente) si sostituisce alla percezione fisica dell’occhio quella soggettiva ed emozionale della memoria e dello “stream of consciousness”, della percezione prolungata nella coscienza che viene teorizzata in filosofia, negli stessi anni, da Bergson.
Se questa nuova ed originale visione artistica ed estetica di Chini risulta tra 1912 e 1913 originalmente intersecata da suggestioni secessioniste viennesi, nei lavori ad affresco mantiene invece un tono “ufficiale” alto, più evidentemente legato alle precedenti esperienze dell’artista in campo murale, seppur fantasiosamente intersecato da lussureggianti cromatismi e da orientalismi evidenti. Tuttavia, nell’esecuzione degli affreschi, il suo orientalismo non deriva solamente (come nei dipinti) da una suggestione psicologica profonda, ma soprattutto da una posizione estetica precisa, citata nelle Memorie e nello stesso manifesto “Rinnovandoci Rinnoviamo”: la volontà di riportare i “caratteri etnografici” tipici del luogo in cui si lavora (“Per questo dovei visitare monumenti di varia indole e procurarmi da questi e da altre cose, conoscenza di quei materiali necessari a farmi una discreta conoscenza Etnografica necessaria, oltre che la parte storica dei soggetti che dovevo svolgere” . Tra i principi sostenuti dal manifesto “Rinnovandoci Rinnoviamo” (1917) vi era lo “Sviluppo di tutte le applicazioni artistiche derivanti da caratteri etnografici”), simbolo di una dignità “colta” dell’opera d’arte, di una qualità di pensiero e di “verità” che egli attribuisce alla rappresentazione artistica, scevra ormai dei cascami estetizzanti del simbolismo fin de siècle.

La sala della XXV Biennale di Venezia del 1914
con la personale di Galileo Chini

Di fatto gli aspetti maggiormente “orientalisti” degli affreschi si colgono nelle zone non figurate, decorate con elementi siamesi, e nelle descrizioni degli abiti e delle cerimonie, fedelmente riprodotti attraverso uno studio approfondito. Il tono generale delle composizioni, che si lega peraltro allo stile generale del Palazzo del Trono, di un eclettismo internazionale e ben poco orientaleggiante (la scelta del re era infatti di avere dei manufatti decisamente in stile “europeo”), rimane invece, come si accennava, quello tipico di Chini, e di un genere di rappresentazione storica e “popolare” (nel senso di penetrazione dell’epos di un popolo) che trova ad esempio nello svizzero Hodler (come ebbe a notare Anna Imponente) analoghi caratteri di fedeltà storica misti a una visione stilisticamente antinaturalistica, rutilante, segnata linearmente e cromaticamente secondo i moderni stilemi dell’art nouveau.

Il ritorno di Chini in Italia avviene nell’estate del 1913. Il frutto di questa impareggiabile esperienza confluirà nella sala di dipinti siamesi che l’artista presenterà alla Biennale di Venezia del 1914, e parimenti nella celebre serie di pannelli concepita per la sala Mestrovic alla stessa Biennale, in cui le astrazioni formali orientaleggianti incrociate ai secessionismi viennesi gli permettono di esprimere il flusso rigoglioso e naturale dell’esistenza: in cui anche il soggetto, La Primavera che perennemente si rinnova, riassume il senso di misticismo panico che l’oriente gli aveva donato, attraverso l’inedita sensibilità spirituale del buddismo.

 

Chini tra le due guerre. La solitudine come appartata distillazione di temi

In Italia, parallelamente a quanto avveniva in Europa sebbene in misura più ristretta, va delineandosi fin dal principio del secolo una tendenza pittorica originale, che può definirsi “impressionismo psicologico”, che intendeva sostituire alla realtà e all’impressione ottica ed empirica ottocentesca un diverso modo di rispecchiare il mondo, ribaltando sull'impressione soggettiva e psicologica il contenuto dell'immagine pittorica. Tale esigenza, nutrita di un sentimento “bergsoniano” del tempo e della psicologia, traccia un'ipotesi di espressione "moderna" alternativa alle avanguardie, in continuità ed evoluzione rispetto alle esperienze impressioniste e simboliste.

Galileo Chini davanti alla Manifattura a
Borgo San Lorenzo, 1920

Galileo Chini è certamente il pittore più significativo ed emblematico in Italia di questa tendenza che ribalta l'impressione ottica sulla coscienza interiore, una sorta di parallelo italiano a Bonnard. Il triennale soggiorno in oriente sviluppa in Chini la vena meditativa e di trasfigurazione della realtà in ritmi cromatici sottilmente virati, in immagini permeate da un trasporto interiore non frenato, che libera le paste pittoriche alleggerendole in tocchi divisionisti che registrano non la divisione del colore ma la permanenza nella coscienza di un bagliore, di una sensazione.
Il monologo interiore, lo spirito sensibile aperto ad ogni circuitazione dell'intelletto e della sensibilità, sono le costanti dei quadri di Chini, come di quelli dei suoi corrispettivi europei: Bonnard e Vuillard in Francia, Grant in Inghilterra, Corinth in Germania. La loro libertà formale, che non vuole costringersi in forme o concetti progettati e organizzati, precostituiti, deriva da una profonda libertà intellettuale, da una capacità di abbandonarsi alle onde della coscienza interiore.
Galileo Chini, dopo i grandi successi internazionali del primo decennio del secolo, sviluppa sempre più un carattere che lo conduce alla scelta solitaria della pittura, abbandonando quasi definitivamente le grandi imprese decorative ad affresco che tuttavia conduce ancora negli anni Venti, in cicli che lo confermano uno dei migliori interpreti del Déco italiano. Nel 1930 tiene una grande personale alla galleria Bernheim-Jeune di Parigi, la maggiore galleria europea che presentava questa tendenza, e prosegue l'attività pittorica dipingendo in appartata solitudine una serie di paesaggi della Versilia, di nature morte, di nudi di straordinaria felicità pittorica, di un intimismo lirico altissimo e sensualmente melanconico. Si apre una stagione, che ha il suo epicentro negli anni Trenta, di larga e continua produzione, che dura fino alla Seconda guerra mondiale, epoca in cui il mondo sembra incrinarsi per l’ormai anziano pittore, che non riconosce ormai più la possibilità felice di un isolamento psicologico, sconfessato dalla cruda realtà della guerra.


Nel secondo dopoguerra la sua pittura infatti si scurisce, arrivando a esiti espressionisti, per terminare la sua carriera pittorica in un cupo simbolismo che recupera temi della sua gioventù, resi drammatici dalla progressiva perdita della vista e dalla prossimità percepita della morte.