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ATTILIO SELVA
(1888-1970)
Sculture
9 maggio - 27 giugno 2008


Enigma, 1919
firma e data sulla base a sinistra con sigla 'AS'

Per rintracciare l’unico volume di carattere monografico pubblicato su Selva bisogna risalire al 1939. Se si considera che l’artista fu uno dei più importanti del suo tempo la circostanza è a dir poco sorprendente e spiega l’interesse, anche scientifico, della rassegna voluta da Francesca Antonacci e del catalogo curato per l’occasione dalla stessa gallerista e da Giovanna Caterina De Feo, storica dell’arte da sempre autorevolmente impegnata nello studio e nella valorizzazione dell’ambiente artistico romano della prima metà del ‘900.
Fra le trentadue opere in mostra, figurano alcuni dei capolavori della produzione di Selva, pezzi esposti nelle più prestigiose manifestazioni artistiche dell’epoca e salutati dalla critica come simboli del rinnovamento dell’arte italiana. L’occasione che riunisce in un unico contesto espositivo gli oggetti del desiderio di ogni collezionista di scultura figurativa italiana - Ritmi, Enigma, il Ritratto della Signora Carena, solo per citare i nomi dei lavori più noti - è inoltre resa ancora più preziosa da una di quelle commoventi coincidenze che a volte il destino si diverte a creare: la galleria di Francesca Antonacci si trova al 54 di Via Margutta, nello stesso cortile in cui aveva sede il Circolo Artistico Internazionale, prestigiosa istituzione dove, nel 1912, il ventiquattrenne Selva partecipa alla sua prima mostra documentata.
Al di là dell’entusiasmo suscitato tra gli appassionati di arte italiana del periodo che precede la seconda guerra mondiale, la mostra sarà un’ottima opportunità per chiarire a quanti ritengono di non conoscere Attilio Selva che in realtà lo conoscono benissimo. Infatti, nel corso degli anni Venti e Trenta, lo scultore, parallelamente alla realizzazione di ritratti e opere destinate alla partecipazione espositiva di alto livello, si dedica all’esecuzione di monumenti, partecipando ad alcuni dei più importanti cantieri del periodo. Tra questi il Foro Mussolini, per il quale realizza alcune delle statue più note, immagini-simbolo di un’epoca che sono negli occhi di tutti: il Lanciatore di giavellotto, il Pugilatore, il Discobolo e il Fromboliere.
Questo aspetto dell’attività di Selva è documentato da una splendida Testa per la Vittoria alata del 1925, rapportabile al Monumento a Nazario Sauro a Capodistria e da un disegno di progetto per la Fontana di Piazza dei Quiriti a Roma, accusata di oscenità per via di quattro cariatidi completamente nude.
Per il resto si privilegia il capitolo, veramente raffinato, della ritrattistica e quello della ricerca, mai interrotta nel privato del suo studio, sul corpo femminile. Riproducendo in modo appassionato corpi e visi di donna, icone di una femminilità arditamente moderna nella sua apparente classicità, Selva mette a punto il suo stile: “una personale declinazione del Ritorno all’Ordine spesso in anticipo sul tempo” (Giovanna De Feo).
Il percorso espositivo consente di verificare agevolmente l’evoluzione stilistica dell’artista.
Nato a Trieste nel 1888 e, dunque, di nazionalità austriaca (ma irredentista della prima ora), Attilio Selva compie il suo primo apprendistato presso Leonardo Bistolfi, lo scultore torinese che, almeno sino alla metà degli anni Dieci, può essere considerato l’espressione più avanzata della scultura italiana. Poco più che ventenne, nel 1909, vince il Premio Rittmayer che gli consente un soggiorno di studio a Roma, la città dove, proprio in quegli anni, si creano le condizioni per un tentativo di modernizzazione dell’arte italiana, grazie anche all’affluire da ogni parte d’Italia dei giovani talenti cui il Pensionato Artistico o analoghe istituzioni assicurano alloggio e studio nella capitale per almeno due anni. A Roma, il giovane triestino comincia a superare lo stile floreale e simbolista di Bistolfi. Di particolare rilevanza ai fini della formazione della sua cifra stilistica è l’impatto con la plasticità monumentale, di matrice michelangiolesca, della scultura di Ivan Mestrovic, vista all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911.
Ritmi, gesso dorato del 1913 esposto dall’artista alla Terza Mostra della Secessione, è una delle prime riuscite testimonianze del percorso di ricerca intrapreso da Selva: la complicata posa geometrizzante, che sembra addirittura anticipare modi decò, è però assegnata ad un plastico corpo di donna che occupa lo spazio con autorevolezza. L’evidente carica innovativa dell’opera spacca la critica e pone il suo autore al centro di un dibattito che segna l’inizio della sua fama. I commentatori più aggiornati indicano in Selva, Spadini e Viani i protagonisti di un nuovo corso dell’arte italiana. Un nuovo corso la cui natura è chiaramente dichiarata da sculture come la Danzatrice esposta alla Quarta Mostra della Secessione (1916-1917) o Susanna, l’opera più michelangiolesca della produzione di Selva, non a caso realizzata nel 1918, l’anno della pubblicazione del primo numero di Valori Plastici, la rivista che attraverso i contributi di Carrà, de Chirico, A. Martini, Melli, Morandi, Savinio e Severini sancisce il ritorno d’interesse per lo studio degli antichi maestri. Di poco successiva è Enigma, l’opera della consacrazione, quella che fa scrivere a Cipriano E. Oppo che alla Prima Biennale Romana del 1921 è Selva a “tenere lo campo”. Capolavoro di rara eleganza è Primula (1923), presentata nelle principali città degli Stati Uniti nel corso di una mostra itinerante sull’arte italiana. Né si può fare a meno di menzionare il Ritratto della Signora Carena, unanimemente considerato uno degli esempi più belli della celebrata ritrattistica di Selva. La moglie del pittore Felice Carena è un’invenzione policroma realizzata pensando all’arte classica e rinascimentale. Una stupefacente Agrippina degli anni Venti in cui il bronzo argentato del volto si innesta sul marmo cipollino del drappeggio e sul marmo africano della base.
Perfettamente in linea con la tendenza del ritorno alla classicità, della quale può essere a buon diritto considerato un anticipatore, Selva mantiene però le distanze da ogni “gruppo”. Silenzioso, indipendente, caratterialmente difficile da decifrare, si rende protagonista di una serie di inspiegabili defaillance. Giovanna C. De Feo nel saggio in catalogo le annota con puntualità: l’assenza alla Biennale Romana del 1923, quella del debutto ufficiale degli artisti neoclassici e, soprattutto, la mancata adesione all’invito di Margherita Sarfatti a partecipare alla Prima Mostra del Novecento Italiano. Clamoroso diniego di un artista al centro di un nodo critico ancora non completamente sciolto.


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