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LAPO SAGRAMOSO
Roma e il Tahmisat
17 - 27 Novembre 2010


I tahmisi ci aiutano a riscoprire Roma.
Pochi lo sanno ma Roma è stata, in un momento ancora non bene precisato della sua storia, invasa e governata da una cultura straniera: quella dei tahmisi.
Gentile invasione, in verità, e dolce dominazione, dato che il tutto è avvenuto - e avviene - sul piano poetico ed artistico.
I tahmisi e il Tahmisat, loro paese d’origine, sono infatti delle invenzioni. Tuttavia sarà utile ricordare che inventare viene da invenire, cioè trovare, scoprire, portare ala luce, rendere evidente quello che prima si celava o si mascherava.
I tahmisi giungono nelle nostre città, esplorano i nostri paesaggi, si imbattono nei nostri usi e costumi, come gli Usbek e i Rica delle Lettres Persanes fecero con quelli della Francia di Luigi XV. Così come i due ambasciatori orientali riuscirono a mostrare l’Europa agli europei come non l’avevano mai vista, allo stesso modo i tahmisi, con la loro bonomia, la semplicità, la mancanza di avidità, la generosità, in una parola: con la loro signorilità, ci rivelano molto di noi, di quello che siamo e di quello che potremmo essere.
La visita degli stranieri, quindi, come pungolo per una maggiore consapevolezza, tanto più fecondo perché - Montesquieu docet - il confronto avviene in assenza di giudizio morale ma vuole invece stimolare l’immaginazione, la fantasia, il sogno. Il rapporto con il diverso, infatti, per i tahmisi non genera mai scontro, ma amalgama, mosaico, ricchezza della differenza. E’ loro convinzione che solo accostando il bianco al nero, il caldo al freddo, l’oriente all’occidente, il nero, il caldo e l’occidente si rivelano per quello che sono, esistono e diventano cose buone. Senza l’unione delle diversità la realtà e la vita scivolano quindi verso un grigiore uniforme e omologato che non può portare a nulla di buono.
E’ forse questo, questa necessità tutta loro di scovare e far conoscere il bello e il buono, a spingere i tahmisi nel luogo dove il bello e il buono vivono nella massima concentrazione e dove, forse, sono massimamente dimenticati: Roma.
A poco a poco, senza dare troppo nell’occhio, cammelli, asini e cavalli percorrono le vie e sostano nelle piazze, caffettani di seta variopinta si aggirano per le stradine del centro o si stendono sui cuscini accumulati davanti ai caffè. Sui tetti fioriscono le altane, tendaggi candidi, tesi tra le case, proteggono le vie da un sole diventato tropicale. Cerimonie pubbliche, fastose e rustiche, si succedono in un calendario che non ha nulla da invidiare ai fasti dell’antica corte papale. Perfino il tempo sembra subire una strana mutazione: tempeste di sabbia o gelate improvvise sconvolgono le giornate romane. E un senso di gioco, di allegria, di meraviglia, pervade la città e contagia i proverbialmente scettici abitanti. A volte, strano quanto si vuole, basta un innocente acquerello per farci cambiare di umore.
In tutto questo Roma resta sempre se stessa, naturalmente. Ma forse, per dirla con Calvino: “mai aveva potuto conoscersi così.”


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